È difficile spiegare questo luogo a parole, ma ci provo: un fiume cristallizzato che scende verticalmente in tre curvoni e termina in una gigantesca caverna di polistirolo spennellata di turchese e grigio.
La sommità della caverna
è alta quanto un palazzo di trenta piani.
Le sue volte si sovrappongono una sull’altra in modo geometricamente inquietante e dalla cavità fuoriesce un torrente biancastro che si snoda per chilometri dentro un canalone di roccia fino a lambire il mare.
Una delle particolarità di Franz è proprio quella di trovarsi tanto vicino all’oceano.
Giunta a piedi fino alla base della caverna, scorgo una fila di punti neri microscopici che si muovono in fila indiana sul versante destro della parete di ghiaccio. Zummo con la macchina fotografica e mi rendo conto che si tratta di una cordata di scalatori. Sembrano pulci sulla groppa di un rinoceronte bianco.
Prima di vedere il ghiacciaio con i miei occhi, avevo valutato la possibilità di aggregarmi a una delle escursioni a piedi offerte dai vari tour operator, ma adesso realizzo che nelle tre ore di marcia previste si riesce a raggiungere sì e no la sommità della grotta. Una sfacchinata del genere, solo per salire sopra la bocca del ghiacciaio che riesco a vedere benissimo da qui, è fuori discussione.
Opto per l’elicottero.
Voglio vedere il ghiacciaio nella sua interezza,
dalla vetta fino a valle,
voglio esaminarlo dall’alto e camminarci sopra.
Prima di salire sull’elicottero, gli efficienti neozelandesi mi equipaggiano di tutto il necessario: giaccone cerato, calzini termici, scarponi di cuoio, ramponi chiodati e racchette da arrampicata. Quando sono vestita, un responsabile mi illustra il comportamento da adottare una volta sul ghiacciaio: «Solleva i piedi, non trascinarli. Conficca bene i ramponi nel ghiaccio a ogni passo e usa le racchette per mantenere l’equilibrio. Scivolare è un attimo e lassù è pieno di pericoli: voragini, crepacci e pozze di acqua nascoste da lastre di ghiaccio. Cadere dentro una di quelle equivale a morire assiderati. Resta concentrata, cammina dietro la guida, non ti allontanare e non prendere iniziative.»
Se prima pensavo
che l’escursione in elicottero
sarebbe stata una passeggiata rispetto alla scalata,
adesso non se sono più tanto sicura.
Esco dall’hangar e salgo a bordo. L’elicottero si solleva. Sorvola il canalone col fiume latteo che ho percorso a piedi il giorno precedente e si avvicina al mostro di ghiaccio disteso nell’incavo della montagna. Da quassù, la grotta somiglia a una testa di serpente incastrata nella strettoia di rocce. Il pilota tira la cloche, vira seguendo le scaglie di ghiaccio e risale il corpo sinuoso fino alla vetta della montagna.
Per qualche inspiegabile motivo mi aspettavo di scorgere un particolare che chiarisse perché un monte sia in grado di originare un ghiacciaio e un altro no, ma scorgo solo rocce nere, appuntite e spennellate di neve e un po’ mi sento delusa. Non mi delude invece il complesso intrico delle onde di ghiaccio, la loro immobilità e il colore bianco-turchese.
L’elicottero si abbassa. Prima che possa chiedermi come riuscirà ad appoggiarsi su quel ghiaccio irregolare, siamo già atterrati. Scendo e mi rendo conto che il punto di atterraggio è stato spianato di proposito e segnalato con sassi disposti a cerchio. Gli efficienti neozelandesi non smettono mai di sorprendermi.
Sul posto mi attende una biondina in bermuda con polpacci da culturista, un insolito cappello da cow-boy e una piccozza: la mia guida. Mi ripete i mille modi in cui potrei ammazzarmi: cadere in un crepaccio, morire congelata, eccetera. Io non l’ascolto.
Mi sento sulla vetta del mondo,
pervasa da una gioia e un’eccitazione indescrivibili.
I pinnacoli di ghiaccio, che dall’elicottero sembravano piccole increspature, s’innalzano sopra di me come una foresta di aculei, l’aria è gelida e secca, la luce abbagliante.
Due cose mi colpiscono in particolare: il biancore e il silenzio.
Il ghiaccio m’ingoia nelle sue viscere smorte, l’assenza di rumori incute timore. Ovunque guardi vedo un solo colore.
Ogni scenario possiede suoni e colori: verde bosco, azzurro mare, giallo grano, marrone terra, rosso papavero, arancio tramonto. Il fragore delle onde accompagna gli oceani, le foglie mosse dal vento sono la sinfonia del bosco, le cicale cantano l’estate, il traffico è il drum and bass cittadino. Quassù è tutto biancore e silenzio, è come galleggiare dentro una bolla cieca e muta, e penso: “come sarebbe se le mie orecchie smettessero di udire? Vivere senza lo schiocco di un bacio, il rumore di uno starnuto, di un colpo di tosse, una risata, un pianto; senza il tintinnio dei bicchieri durante un brindisi, la moka che gorgoglia sul fornello, il mixer che frulla, l’acqua che bolle, la cipolla che sfrigola nell’olio; un cane che abbaia, un passero che cinguetta, una mosca che ronza e sbatte contro un vetro chiuso (di questa potrei anche farne a meno), lo sferragliare di un treno, il fischio di una nave, il rombo di un motorino smarmittato (anche di questo potrei farne a meno), la sirena del camion dei pompieri, le campane di una chiesa che suonano a festa. Come sarebbe vivere senza tutto questo? E se, in aggiunta, i miei occhi smettessero di vedere?”
Grazie alla bolla muta e cieca di Franz, per la prima volta mi sento pienamente appagata per il semplice privilegio di possedere i doni della vista e dell’udito.
E tu, sei mai stato su un ghiacciaio?
Che cosa hai provato?
---------------------
Ciao, sono Eleonora Scali
e sei sul mio blog
Se ti è piaciuto questo racconto di viaggio, sappi che è contenuto nel romanzo "Prove tecniche di solitudine", il resoconto di un'avventura in solitaria in Nuova Zelanda.
Prove tecniche di solitudine (Tabula Fati ed. 2021)
collana "I Dioscuri nr. 31"
ISBN 978-88-7475-943-9
353 pag. solo in edizione cartacea
Comments