
Nel 2005 ho percorso in solitaria tutta la Nuova Zelanda. Ho guidato per quasi ottomila chilometri, diverse centinaia li ho fatti a piedi nei boschi, sulle spiagge e in città; ho utilizzato ogni mezzo galleggiante e non, dalla barca a vela al trattore, dall’elicottero al catamarano, dal fuoristrada al vaporetto d’epoca.
Davanti ai miei occhi sono passati vulcani, fiordi, ghiacciai, cascate, dune giganti e foreste. E poi, pinguini, foche, opossum, delfini e alcuni fra gli uccelli più strani e rari. Ho conosciuto decine di persone e ascoltato le loro storie.
Questo viaggio è stato il pretesto mettere alla prova la mia capacità di stare sola, affrontare le mie paure e analizzare me stessa in modo lucido, talvolta spietato.
C’è stato il viaggio fisico, dunque, ma anche un percorso interiore personale.
Ho ascoltato le storie di altri viaggiatori incontrati lungo il percorso e fatto un raffronto fra due culture agli antipodi, quella neozelandese e quella italiana.
Il racconto di questa esperienza è diventato un romanzo (Prove tecniche di solitudine, Tabula Fati editore).
Questo è l'incipit:
Nel ventre di mia madre ero già su un camper. A sei anni visitai la Tunisia, e negli anni successivi i miei genitori mi portarono in Spagna, Portogallo, Marocco, Algeria, Yugoslavia, seguita da Grecia, Turchia, Siria e Giordania. Mentre visitavo Petra in sella a un cammello, i miei coetanei giocavano a flipper in qualche stabilimento balneare della costa romagnola.
Nel 1978, avevo tredici anni, mio padre trascinò tutta la famiglia fino in Afghanistan a bordo di un vecchio Ford Transit. Io e mia sorella l’avevamo battezzato verdolino per la sua carrozzeria verde pistacchio. Non c’era carovana di nomadi che non si girasse a guardarci quando passavamo; non solo per la tinta, che spiccava sullo sfondo grigio polvere del deserto, ma soprattutto per l’allestimento: mezza dozzina di taniche di carburante sul tettuccio, griglie di protezione su parabrezza e fari, nastro adesivo a sigillare tutti i finestrini. Erano le precauzioni minime per evitare vetri rotti, polvere in cabina e restare a secco in mezzo al nulla. Di quell’esperienza ricordo in particolare la maestosità dei Buddha di Bamiyan (quelli distrutti con l’esplosivo dai talebani nel 2001), il blu inverosimile dei laghi sacri di Band-e-Amir, e il sequestro di due giorni alla frontiera con l’Iran, dove guardie armate ci smontarono il camper pezzo per pezzo alla ricerca d’inesistenti panetti di hashish.
Spezzato il cordone ombelicale, ho proseguito a viaggiare col fidanzato, poi diventato marito, e con il compagno di vita successivo.
A novembre del 2002 sono diventata single e il mondo si è fermato. L’idea di viaggiare da sola mi metteva paura, angoscia, ansia, perfino imbarazzo. Può sembrare assurdo e irrazionale, eppure è così che mi sentivo al solo pensiero di avventurarmi da sola in qualche paese straniero.
Sono passati gli anni e la mia viaggio-dipendenza si è ripresentata. Seduta davanti alla TV ho fatto scorpacciate di documentari del National Geographic, ho sbavato davanti ai reportage di Dream’s Road e di Turisti per caso, mi sono imbottita perfino di Orrori da gustare, solo perché Andrew Zimmern, nella sua ricerca di schifezze da assaggiare, mostra scorci interessanti di paesi che avrei voluto visitare.
Allora, ho scandagliato tutte le amicizie in cerca di un compagno o di una compagna di viaggio; ma pareva fossi l’unica quarantenne single senza figli, problemi di soldi e, soprattutto, con del tempo a disposizione.
Infine, l’astinenza è divenuta intollerabile. Mi sono fatta coraggio e ho organizzato un viaggio in solitaria: destinazione Nuova Zelanda, tempo a disposizione due mesi, tipo di viaggio on the road.
«Brava furba,» potrebbe commentare qualcuno. «Per cominciare non era meglio un posto più vicino, un programma meno complesso, un periodo più breve?»
Eh, no! Devo compensare le privazioni degli ultimi tre anni e sconfiggere le mie paure: per questo mi serve una cura drastica. Ho scelto un paese al capo opposto del mondo così da non poter tornare indietro alla prima difficoltà; un itinerario non preconfezionato per mettermi alla prova; un tempo così lungo per abituarmi all’idea di essere sola.

Nella prefazione, Enrico Rulli* dice: “Poiché gli autori di romanzi di viaggio sono in prevalenza uomini, siamo abituati a conoscere i luoghi esplorati secondo il loro punto di vista, a leggere romanzi che mostrano la loro sensibilità. Non che gli uomini siano più stolidi e insensibili delle donne, tuttavia è innegabile che si comportano, pensano e agiscono diversamente dalle donne e ciò che li colpisce spesso non coincide con ciò che vede una donna.”
Trovo questa osservazione quasi il punto focale del mio racconto perché il mio punto di vista di donna su tutto ciò che ho osservato e vissuto durante questo viaggio è presente in ogni pagina.
*Enrico Rulli è editor, conferenziere, curatore di antologie, saggista e direttore della rivista di critica letteraria Quinto Orizzonte.
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Ciao, sono Eleonora Scali
e sei sul mio blog

Nuova Zelanda: il viaggio in solitaria di una donna disposta a sfidare le proprie paure. Ne uscirà rafforzata e con nuove consapevolezze.
Prove tecniche di solitudine (Tabula Fati ed. 2021)
collana "I Dioscuri nr. 31"
ISBN 978-88-7475-943-9
353 pag. solo in edizione cartacea
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