Ho trascorso quasi due mesi in Nuova Zelanda e mi ero fatta l'idea di un luogo idilliaco, dove tutti se la passano bene e sono felici.
Un giorno, nell'ostello in cui soggiornavo, ho conosciuto un neozelandese purosangue, non un immigrato o figli di immigrati, come ha tenuto a precisare lui. Theery, questo il suo nome, era un kiwi (sì, si scrive e si pronuncia come il frutto e l'uccello). Così si definiscono i "veri neozelandesi" per distinguersi dai non totalmente autoctoni, e vanno molto fieri della loro identità.
Approfittando di avere un "vero neozelandese" a portata di mano, gli ho fatto il terzo grado per togliermi alcune curiosità. La nostra conversazione l'ho riportata nel romanzo di viaggio Prove tecniche di solitudine, ed è stata questa:
«Dimmi una cosa, Theery, c’è qualcosa che non va in questo paese? A me sembra perfetto: è tutto organizzato, efficiente, pulito; poco traffico, zero disoccupazione, a quello che mi hai detto. La gente è affabile e gentile, per non parlare del vostro senso civico…»
«Questa è l’apparenza,» m’interrompe lui. «I problemi veri sono altri. Una delle nostre piaghe è la depressione.»
«La depressione?»
«Sì. Abbiamo troppa terra, poca gente e nessun divertimento.»
A me pare un’assurdità. «Spiegati meglio.»
«Ci sono villaggi che contano sì e no una decina di abitazioni.» Di questo me n’ero accorta anch’io, ma non capisco dove sia il problema. «Alcune famiglie vivono in fattorie con migliaia di acri di terreno intorno. Ciò significa che il loro vicino più vicino abita a decine di chilometri da loro. Le grandi distanze e la scarsa densità di abitanti limitano la vita sociale e fanno sì che tutti soffrano almeno un po’ di solitudine.»
Non credevo che esistesse la solitudine su vasta scala, l’ho sempre ritenuta un fenomeno limitato al singolo. Trovo bizzarra e terribile allo stesso tempo l’idea che un’intera popolazione si senta sola. In un paese grande quanto l’Italia, oltretutto. Trovo altrettanto curioso che, per mettermi alla prova con la solitudine, io abbia finito per scegliere un luogo dove tutti ne soffrono.
«La solitudine conduce alla depressione,» prosegue Theery. «La maggior parte della gente combatte la depressione bevendo. L’alcolismo è l’altro grande problema del mio paese.»
«So che avete leggi molto severe sul consumo di alcolici.»
«Per forza. L’alcool è il primo responsabile della mortalità su strada. Lungo le strade, non hai notato tutti quei cartelli pieni di avvertimenti sull’abuso di alcol e sulla guida spericolata?»
Ora che Theery mi ci fa pensare sì, ne ho visti parecchi di quei cartelli, ma non ho dato loro troppo peso. Mi erano parsi solo di cattivo gusto ed esageratamente terrorizzanti.
Theery li conosce a memoria, me ne cita qualcuno: «Forse avrai visto un cartellone che mostra un groviglio di macchine incidentate e una fila di cadaveri stesi sull’asfalto, coperti da un lenzuolo bianco.»
«Sì. Raccapricciante.»
«Quello recita: The faster you go, the bigger the mess» (vuol dire: “più vai forte, più grande sarà il casino”). «Un altro molto famoso dice: He was dying for a beer. Then he drove. Now he’s dead» (“Moriva dalla voglia di bere una birra. Si è messo alla guida. Ora è morto”).
Questo non l’ho mai visto.
Theery spiega: «Raffigura un tizio che beve una pinta e poi la sua macchina schiantata. Poi, c’è quello con la foto del tachimetro che segna centoventi chilometri orari e sotto la scritta The fastest way to loose money» (“Il modo più veloce di perdere soldi”). «Il pattugliamento delle strade è continuo e le multe per eccesso di velocità sono salatissime. Ma non servono a impedire che la gente finisca al cimitero.»
«A proposito di cimitero,» gli dico. «Mi ricordo di aver visto un cartello assurdo all’ingresso di un piccolo centro abitato. Non ne ho capito il senso, ma mi ha talmente colpito che l’ho fotografato. Diceva qualcosa tipo: “niente dottori, un cimitero…” Può essere?»
«Sì, ho capito. È quello che recita: Slow down, no doctors, no hospital, one cemetery» (“Rallenta, no dottori, no ospedali, un cimitero”).
«Ma cosa vuole dire?»
«È semplice: vai piano perché nella cittadina dove stai per entrare non ci sono né dottori né ospedali. Se fai un incidente, non c’è nessuno che possa salvarti la vita e finisci dritto al cimitero.»
Mi verrebbe da ridere, ma l’aria seria del mio interlocutore mi trattiene.
«Alcol e solitudine a parte, resto dell’idea che vivere qui dev’essere stupendo,» dico.
Theery mi guarda come se avessi pronunciato una bestemmia.
Io cerco di spiegarmi meglio: «Avete un’organizzazione eccellente, offrite servizi e infrastrutture di altissimo livello sia ai cittadini sia ai turisti. Le strade, ad esempio, sembrano tutte appena asfaltate; i parchi sono curati come giardini botanici; ogni città, anche il paesino più sperduto, ha un centro informazioni che funziona a meraviglia.»
«Che c’è di strano?» chiede Theery.
«In Italia non è così. Ponti, viadotti e strade si sbriciolano come grissini; molte opere pubbliche vengono iniziate e mai finite; i nostri monumenti storici cadono a pezzi; le grandi città sono sommerse dalla spazzatura; la burocrazia uccide cittadini e imprese. Da noi non funziona nulla e manca tutto.»
«Non le donne però. Quelle a voi non mancano. Ho letto che in Europa il rapporto è di sette donne a un uomo.»
Un altro dei problemi in Nuova Zelanda, secondo Theery, è la carenza di donne, come racconto in un altro brano del romanzo:
Mi dice che è rientrato in Nuova Zelanda da poco e che ha il cuore a pezzi. Negli ultimi sette anni ha peregrinato dalle Fiji alla Scozia, dagli Stati Uniti all’Irlanda e alla Francia in cerca dell’anima gemella.
«Perché così lontano?» gli chiedo stupita.
«There are no chicks here.»
Il termine chicks, pollastrelle, mi fa sorridere. L’affermazione che non ci siano donne in Nuova Zelanda mi suona strana. Possibile che uno debba girare il mondo per trovare la fidanzata?
A sentire Theery gli esemplari di sesso femminile qui scarseggiano, e la maggior parte dei ragazzi è costretto a cercarli altrove.
«Ma non l’hai trovata, mi pare di capire,» commento io.
«Ho incontrato la donna giusta a Parigi. Ci siamo fidanzati e abbiamo convissuto un paio d’anni. A quel punto, le ho chiesto di sposarmi e di venire a vivere con me in Nuova Zelanda.»
«E lei ha detto di no?» chiedo.
«No, ha accettato. Allora sono tornato immediatamente qui per organizzare le nozze: casa, documenti, chiesa, ricevimento, partecipazioni. Pensa, sistemato tutto, volo di nuovo in Francia per andare a prenderla, entro in casa pensando di farle una sorpresa, e la trovo con gente mai vista nel bel mezzo di un festino a base di eroina, extasy, acidi e alcol.»
«Oh, cazzo!»
«Ho annullato le nozze, ovviamente. E sono tornato a Whitianga, dove sono nato e cresciuto.»
«Cavolo, mi dispiace. Chissà che shock.»
«Eh, sì.» Theery aggiunge che ormai ha trentotto anni, un’età in cui avrebbe già dovuto mettere su famiglia. «Ma senza chicks come faccio?» conclude affranto.
Mi sembra impossibile che in tutta la Nuova Zelanda non si trovi una pollastra giusta per lui. Decido che è meglio cambiare argomento e gli chiedo che lavoro fa.
«Il carpentiere,» risponde. Mi spiega che qui il termine equivale a costruttore edile specializzato, perché le case sono tutte di legno e lui è in grado di tirarne su una dal principio alla fine. «Con la squadra giusta di operai, in tre giorni costruisco lo scheletro e in poche settimane consegno l’abitazione rifinita in tutto.»
«Io non ci vivrei mai in una casa così,» dico. «Avrei paura che un colpo di vento la buttasse giù, o che se la divorassero le termiti. E poi le case di legno scricchiolano a ogni passo.»
Theery ride. Continua a raccontarmi le sue vicissitudini. «Sai che mi sono licenziato proprio ieri?»
«Sul serio?» Ecco perché ieri era così ombroso e taciturno.
«Il costruttore per il quale lavoravo si è comportato male e l’ho piantato in asso.»
«Così, su due piedi?»
«Certo. E ho preteso subito la liquidazione.»
«E lui te l’ha data? Cash, sull’unghia?»
«Ovvio.»
Spiego a Theery che in Italia bisogna dare il preavviso per licenziarsi, altrimenti ti trattengono dei soldi. E la liquidazione la pagano con calma, a volte se e quando gli pare.
Lui è sorpreso dai nostri sistemi quanto io lo sono di quelli neozelandesi. «Comunque, ho già trovato un altro lavoro,» continua. «Mi è bastato fare un giro per Whitianga. Farò il magazziniere per le prossime tre settimane e per gennaio ho già in mano un contratto di assunzione in un’altra impresa edile.»
«Beato te, Theery. Da noi, di lavoro non ce n’è, il tasso di disoccupazione è altissimo. Se qualcuno ti assume è a tempo determinato, con contratto di formazione, stage non retribuito o, peggio, lavoro nero. D’altro canto, se un imprenditore ti assume a tempo indeterminato, licenziarti diventa impossibile anche se lavori male, non sei capace o sei un fannullone.»
A Theery tutto questo suona come fantascienza. Dice che in Nuova Zelanda è normale cambiare spesso lavoro, tutti assumono regolarmente, il lavoro nero non esiste, puoi licenziarti con effetto immediato e lo stesso può fare il tuo datore di lavoro. «Trovare qualcos’altro richiede non più di ventiquattrore. Se poi sei laureato o hai una qualifica specialistica e parli un’altra lingua oltre all’inglese, chi assume ti viene a cercare a casa.»
Ora capisco perché la Nuova Zelanda è una meta ambita da un sacco di giovani. Vengono qui per un anno o due, viaggiano, lavorano, si mantengono e allo stesso tempo visitano il paese.
«Da noi, invece, la maggior parte dei laureati finisce per lavorare nei call-center, a distribuire volantini, portare pizze a domicilio, oppure a vendere porta a porta,» dico a Theery.
«È uno spreco. Tu cos’hai studiato?»
«Sono laureata alla scuola per interpreti e traduttori.»
«Ecco perché parli bene l’inglese. Quali altre lingue conosci?»
«Francese e tedesco. E l’italiano, ovviamente.»
«Se ti trasferissi qui troveresti lavoro ovunque, e magari potremmo frequentarci e approfondire la conoscenza.»
Ho idea che Theery mi stia facendo il filo.
«Ho già un lavoro,» mi affretto a dire. «Gestisco un cantiere nautico, ormeggio, rimessaggio e manutenzioni di imbarcazioni.»
«Strano lavoro per una donna. È l’azienda di famiglia?»
Dal tono con cui me lo chiede, non capisco se sia un maschilista o mi ritenga una figlia di papà. «No,» gli rispondo. «L’azienda l’ho aperta io qualche anno fa e me ne occupo da sola.»
«Avevi esperienza nel settore?»
«No. Prima avevo lavorato nei settori moto, macchine utensili e marmo.»
«Roba difficile per una chick.»
Mi irrita che chiami pollastrella pure me. «Diciamo che sono una chick con le palle e la testa dura,» rispondo acida.
Theery mi sorride come se gli avessi detto una cosa carina. Dice: «Ti va di cenare con me stasera?»
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Ciao, sono Eleonora Scali e sei sul mio blog
Se i brani qui sopra ti sono piaciuti e sei curioso di scoprire altro sulla Nuova Zelanda, leggi il mio romanzo "Prove tecniche di solitudine" (ed. Tabula Fati).
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