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Un pigro mollaccione (per fortuna)





Sono in ballo da mesi e il foglio non è ancora arrivato. Ma è sempre andata bene, quindi perché preoccuparsi? Squilla il cellulare, è un numero fisso che non conosco. Rispondo ugualmente, se è un call center al massimo riattacco.

«E’ la signora Scali?» Mi chiede una voce femminile.

Confermo.

«Il suo esame non è chiaro. Deve venire a ripeterlo.» E mi dà un appuntamento.

Arriva il giorno. Mi presento puntuale, ma resto in attesa più di un’ora prima che mi chiamino. Entro, mi spoglio, faccio la visita. Mi rivesto e vengo rispedita in sala d’aspetto. Dopo mezz’ora mi chiama un’altra dottoressa. Entro, mi spoglio di nuovo, faccio un secondo esame e torno a sedere insieme agli altri pazienti. Fra tempi morti, visita uno e visita due, passano diverse ore.

Finalmente mi chiamano per il referto. La seconda dottoressa che mi ha visitato, mi fa accomodare di fronte a una scrivania e, con un sorriso da parte a parte, mi dice che il risultato non è chiaro. Devo sottopormi a una VAAB. «Risonanza magnetica con mezzo di contrasto» precisa.

Mi viene dato un appuntamento di lì a una settimana.


Entro, mi spoglio, mi infilano un ago nel braccio, mi piazzano dentro un macchinario nella posizione più scomoda che abbia mai sperimentato, e devo restare immobile, il rumore è assordante e ho l’impressione che il liquido che mi sta scorrendo nelle vene geli ogni fibra del mio corpo, centimetro dopo centimetro.

Passano altri dieci giorni. Il solito numero fisso, che adesso ho registrato sul telefono, mi chiama. «È pronto il referto della VAAB. Venga a ritirarlo.»

Mi presento in reparto. La sorridente dottoressa mi riceve nel solito studio. Senza smettere di sorridere mi dice: «la distorsione è confermata», come fosse una buona notizia. Dal suo punto di vista lo è: il dubbio è ora certezza. Mi sottopone due opzioni: «biopsia, ma è un esame invasivo e talvolta doloroso» precisa, «oppure monitoraggio semestrale per vedere se la distorsione si modifica.»

Scelgo la biopsia, mica voglio vivere col dubbio.

Nel giorno stabilito, mi reco all’appuntamento. Stavolta, per fortuna, l’attesa è brevissima.

«Problemi, allergie?» mi chiede l’infermiera.

«No. Mi fanno solo impressione gli aghi. Ma mi basta non guardare.»

L’informazione deve averla gettata nel panico, perché quando mi infila l’ago nel braccio sinistro per posizionare la farfallina, centra qualcosa d’altro: un nervo, un tendine, un muscolo. Non ne ho idea. Fatto sta che quasi svengo dal dolore, e io ho una soglia del dolore altissima. Resisto per un paio di minuti ma mi vengono le lacrime agli occhi dal male. «È sicura di aver preso la vena?» chiedo all’infermiera.

Lei dice di sì, ma sangue dalla farfallina non ne viene, come constata il medico. Le ordina di togliere l’ago e rimetterlo sul braccio destro. Mentre lei mi buca a destra, il medico mi fa un terzo foro nel polso sinistro. Sforacchiata come uno spiedino, vengo sistemata nel macchinario.

«Adesso le faccio un’anestesia locale. Sentirà un lieve bruciore» dice il medico.

Altro che lieve, il liquido che mi inietta corrode come acido muriatico. In una posizione scomodissima, aspetto diversi minuti che l’anestesia faccia effetto.


«Effettuo il prelievo» mi informa il medico.

Il macchinario, guidato da un computer, fa il primo buco: sento male. Secondo buco: sento malissimo e lo faccio presente. Il medico si ferma, controlla sullo schermo e ammette che l’anestesia, in effetti, non ha preso perfettamente la zona interessata. Mi pratica una seconda iniezione di anestetico e riprende con i prelievi.

Non guardo, perché l’idea di un ago che mi perfora la tetta a più riprese e mi succhia dentro, mi fa impressione. Sento bucare e aspirare, bucare e aspirare. Non conto il numero di trivellazioni, ma sono tante. Adotto una tecnica di meditazione che conosco per distrarre il cervello dal dolore, ma a un certo punto non ce la faccio più e lo dico al medico.

«Abbiamo quasi finito» fa lui. Ma continua a perforarmi per un altro po’ e io sto per svenire.

A operazione conclusa, mi vengono messi sulla parte tre cerotti a formare un asterisco e uno grande sopra, a coprire tutto quanto.

«Se ha dolore, prenda un analgesico» mi dicono.


Inizia l'attesa.

Passano una settimana, due, tre. La zona del prelievo, nel frattempo, è passata attraverso ogni sfumatura dell’arcobaleno e duole. Il braccio sinistro gli fa concorrenza. Non so cos’abbia bucato l’infermiera ma niente di giusto di sicuro.

Finalmente mi chiamano per ritirare il referto. Entro, attendo il mio turno.

Mi chiamano da un ambulatorio dicendo che devo sottopormi a un esame. «L’ho già fatto» dico all’infermiera, «sono qui solo per il referto della biopsia.»

«No, lo dobbiamo rifare.»

“Rifacciamo l’esame” mi dico rassegnata mentre mi spoglio.

Vengo sottoposta a una nuova mammografia. Mi rivesto e torno in sala d’aspetto.

Dopo un po’ mi chiama la dottoressa sorridente. «Venga, facciamo un altro esame.»

Mi rispoglio per l’ennesima volta, mi sottopongo a un'eco mammaria, mi rivesto, torno in sala d’aspetto.

Miss Sorriso mi richiama e mi fa accomodare nello studio. Con quella specie di paresi allegra stampata in faccia ricapitola la cronistoria dei miei esami.

Il lungo preambolo non lascia presagire niente di buono, penso. Se fosse stato tutto a posto, mi avrebbe detto subito: «non c’è niente di cui preoccuparsi, ecco il suo referto.»

Infatti, terminata la cronistoria, la dottoressa mi dice: «abbiamo fatto bene ad andare a fondo alla questione, perché lei ha un tumore.»

Non faccio una piega, non un cenno di sorpresa o una lacrima di sconforto. Non so spiegarlo, ma è come se avessi saputo di avere un tumore dalla primissima telefonata. Come, se da allora, mi fossi preparata psicologicamente.

La dottoressa sembra sollevata dalla mia freddezza. E prosegue: «per fortuna è piccolo, e diversamente da quanto accade a persone della sua età, non particolarmente aggressivo. Una specie di mollaccione pigro, che se ne sta lì placido e tranquillo» aggiunge, strappandomi quasi un sorriso. «Però va tolto chirurgicamente.» La dottoressa continua a sorridere e mi chiede se va tutto bene.

Tutto bene non va, ma non c’è niente che io possa fare perché vada meglio, a parte farmi togliere il mollaccione pigro che pisola beato dentro al mio seno.


Il mollaccione pigro è stato sfrattato il 20 ottobre dello scorso anno. Adesso sto bene, anche se l’intervento e le terapie che ne sono seguite non sono state una passeggiata di salute.

Mi ritengo fortunata, perché la diagnosi è stata molto precoce, ma è stato anche grazie alla mia scrupolosità e puntualità se è andata così. A tutte le donne che mi hanno letto fin qui, voglio dire che lo screening mammario è fondamentale. Sarebbe bene farlo con regolarità a qualunque età, ma quando si raggiunge “una certa” come la mia, e i controlli avvengono su chiamata, in modo periodico e perfino gratuito, BISOGNA ANDARE A FARLI.

A me hanno salvato la vita. Fate voi…


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Ciao, sono Eleonora Scali e sei sul mio blog

In questo spazio parlo dei libri che leggo e di quelli che scrivo; fornisco consigli ad aspiranti scrittori; racconto dei miei viaggi, della mia passione per la musica e di me stessa come donna e come autrice.



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